14 giugno 2011

I giovani sono la nostra bilancia

I giovani sono la nostra bilancia

Don Matteo all’assemblea diocesana: “I giovani sono la nostra bilancia”

Confrontarsi con il mondo dei giovani è davvero salutare, sia per la società che per la Chiesa. È salutare nel senso che aiuta appunto a discernere il proprio stato di salute. È un po’ come salire su una bilancia: e tutti sappiamo che la bilancia non si lascia corrompere. Ti inchioda al tuo peso. Non ha cuore. Non può appellarti al tuo avvocato di fiducia. È un’esperienza che, in parte, può essere in parte anche traumatica. Ma non solo. Può anche diventare uno stimolo per un’eventuale ridefinizione della propria prassi e del proprio stile di vita. Ebbene qualcosa di simile vale per il confronto con i giovani d’oggi: sono la nostra bilancia.

E allora saliamo su questa bilancia. E ciò che ci viene detto – questo è almeno ciò che io leggo sul display – è che i giovani oggi sono come invisibili, increduli e inquieti. Tre aggettivi che dicono qualcosa dei giovani d’oggi, ma che pure dicono di quell’oggi – cioè di noi adulti, di noi Chiesa, di noi società – in cui essi vivono.

“Perché i giovani sono invisibili?”

Invisibili. Il primo aggettivo, allora: invisibili.
Se siamo in molti quelli che oggi parlano dei giovani e si interessano a loro, è perché effettivamente in parte sono diventati così per dire invisibili. Due sono le cause principali di questa invisibilità:
1) l’allungamento della vita media (il vero shock dell’epoca contemporanea) e l’imporsi di uno stile di vita legato all’esaltazione dell’individuo hanno portato a una progressiva affermazione di un’inattaccabile gerontocrazia, che non sa fare spazio alle nuove generazioni;
2) l’indebolimento strutturale della fascia giovanile, ovvero la crescente denatalità dell’Occidente fa in modo che se ne vedano sempre di meno, di giovani. Negli ultimi cinquanta anni la fascia giovanile – 18-29 secondo i parametri dell’istituto Iard – è diminuita del 27%, passando dall’essere un quarto della società nel 1950 all’essere oggi solo un settimo.

Tutto ciò crea un terribile circolo vizioso: già pochi per numero, risultano infine oscurati dall’onnipresenza dei vecchi (cfr Pippo Baudo).

“A livello politico non facciamo niente per loro. E’ una strage degli innocenti”

Primo senso dell’invisibilità dei giovani: sono pochi.
Ma l’invisibilità del mondo giovani intende dire pure un’altra cosa: dice il fatto che l’intera società, in particolare quella italiana, si sta completamente lavando le mani del loro destino. Il decano dei sociologi italiani, Ferrarotti ha appena scritto un libro dal titolo inquietante: La strage degli innocenti. Note sul genocidio di una generazione. A che cosa si riferisce?  Proviamo a capirlo insieme.
I giovani italiani sono circa 8 milioni e al momento stanno maggiormente provando i contraccolpi della recente crisi economica: si pensi agli ultimi dati Istat, secondo il quale il 29 per cento di loro non riesce a trovare lavoro. Si pensi pure alle spesso penalizzazioni condizioni contrattuali cui si sono sottoposti la maggior parte degli altri 4 milioni di giovani già a lavoro e infine alla situazione quantomeno fragile, precaria, instabile degli studenti universitari, che, seppure diminuiti negli ultimi cinque anni, rappresentano all’incirca un quarto dell’intero ceto giovanile. Che ne sarà di tali studenti? Che cosa li attende, conseguito il “pezzo di carta”? Un futuro incerto giocato tra precariato, espatrio, disoccupazione. Non c’è all’orizzonte nessun intervento strutturale circa le politiche del lavoro e soprattutto circa il necessario raccordo tra mondo dello studio e mondo del lavoro.
Ed ecco il secondo senso della loro invisibilità: alla fine dei conti, non ci interessano davvero. A livello politico non facciamo niente per loro: la strage degli innocenti!
Tutto questo è ovviamente terribile, perché impedisce ai giovani di essere ciò che afferma la verità del loro nome. La parola “giovane”, infatti, nell’etimo greco indica ciò che è nuovo e in quello latino potrebbe derivare dal verbo iuvare, aiutare: essi sono dotati, infatti, del meglio della forza biologica, del meglio della forza riproduttiva, del meglio della forza intellettuale, e di un naturale desiderio di cambiamento. Sono come delle cellule staminali che la natura dona alla società per rinnovarne e rinvigorirne il processo di crescita. I giovani sono la novità di una forza e la forza di una novità. Ma appunto forza e novità, delle quali si fa ben volentieri a meno. Per la parte “grassa” della società è come se non ci fossero. Così ci troviamo con giovani costretti a non poter innovare e giovare. Né a loro né ad altri. Sono un mondo di cui si pensa di poter fare a meno. E purtroppo gli scenari futuri non appaiono migliori.
Anzi ad aggravare la condizione dei giovani è proprio il fatto che la società è tutta concentrata sul presente e del futuro lascia emergere un volto davvero minaccioso.

“A Fano quando si diventa giovani?”

Il futuro invisibile, il venire meno della sua forza è la prima origine del disagio giovanile vero e proprio: senza la luce del futuro, l’energia giovane si disperde; senza lo schermo del futuro, l’energia che uno ha dentro non trova modo di esprimersi e spesso si dissolve.
In questo modo costringiamo i nostri giovani – le nostre cellule staminali – ad arrangiarsi nel presente (e che presente!) e a stare all’infinito in panchina. Da qui nasce infine una forte inquietudine, un disagio, un senso di notte, un’altra forma di invisibilità. Una ferita che ha ricadute su ogni aspetto della vita, anche per quel che riguarda l’esperienza religiosa. Basti qui citare lo spropositato aumento di casi di depressione tra i giovani, che si unisce ai già noti dati circa il costante aumento di consumo di alcol, di fumo, di droga. Non c’è bisogno di citare teologi come Tommaso, per ricordarsi che lì dove l’umano patisce ritardi e ferite al suo pieno fiorire, il cristiano non ha molte possibilità di successo. Senza infatti una fiducia elementare nella vita e nelle sue possibilità, è difficile che ci sia qualcosa come la fede cristiana.
Eppure questa è una ferita invisibile per molti adulti. A loro avviso i giovani non avrebbero nulla di cui lamentarsi: sono più sani, più nutriti, più dotati economicamente, addirittura più alti dei loro coetanei del passato. Più belli. Che c’è dunque che non va? Di più: i maschi non hanno ora l’obbligo della leva, e le ragazze quello di un fidanzato. Frequentano un’università meno severa, hanno tempo libero a iosa e nessuno impone loro tabù circa il sesso. I genitori si presentano come amici, addirittura complici, non alzano la voce né le mani. La stessa Chiesa non fa più la solita morale sessuale e, la domenica, ci sono messe ad ogni ora.
Questo basta per mettere l’anima degli adulti a posto. Ma che cosa c’è al fondo di questa feroce distrazione? Che cosa potrebbe rendere ragione di una tale cecità degli adulti, della loro sempre crescente difficoltà di rendersi conto delle conseguenze che un certo modo di distribuire iniquamente le risorse e l’accesso a prerogative inizia ad avere sulle fasce più giovani? Insomma: come ci sono diventati invisibili i nostri giovani?
La spiegazione di tale stato di cose è data all’avvento, nel corso degli ultimi decenni, di una vera e propria rivoluzione copernicana, dovuta in parte all’allungamento dell’età media: se appunto sino ad anni recenti era lo stato di adulto ad essere al centro dell’immaginario collettivo, quale condizione desiderabile di autonomia, di libertà d’azione, di disponibilità di denaro e di prestigio sociale, oggi al centro dei desideri della società occidentale troviamo il culto della giovinezza, l’esaltazione della giovinezza, divenuta ormai la vera macchina di felicità di ogni adulto nato dopo il 1946. Se riesci a restare giovane, hai diritto alla felicità. E qui non parliamo di giovinezza dello spirito, ma di vera e propria ansia di mostrarsi in tutto e per tutto giovani nella concretezza del proprio corpo (pensate al terrore dei capelli bianchi).
Ne viene fuori una sorta di maledizione dell’età adulta e della vecchiaia: su di esse vige una tacita scomunica/maledizione collettiva (chiedetevi per esempio: “quando si diventa vecchi a Fano?”). La cosa ha ovviamente numerose ricadute.

“Il dio degli adulti e’ la giovinezza. La nostra pastorale produce meno credenti e giovani più estranei”

I dati citati – mi pare – confermano la bontà dell’ipotesi di uno scollamento della trasmissione della fede cristiana tra le generazioni e quindi dell’ipotesi che i nostri ventenni e trentenni siano la prima generazione incredula dell’Occidente: una generazione che non vive contro il Dio e la Chiesa di Gesù, ma senza il Dio e la Chiesa di Gesù e vive addirittura anche la propria ricerca di spiritualità senza questo Dio e senza questa Chiesa. E non perché non l’abbia conosciuta, la Chiesa, ma perché a questa generazione non è stata trasmessa, da parte della famiglia d’origine, la testimonianza del legame tra vangelo e vita buona. Figli di genitori, dunque, che non hanno dato più spazio alla cura della loro fede: hanno continuato a chiedere i sacramenti della fede, ma senza fede nei sacramenti, hanno portato i figli in Chiesa, ma non hanno portato la Chiesa ai loro figli, hanno favorito l’ora di religione ma hanno ridotto la religione a una semplice questione di un’ora. Hanno chiesto ai loro piccoli di pregare e di andare a Messa, ma di loro neppure l’ombra, in Chiesa.

Hanno imposto, questi adulti, una divergenza netta tra le istruzioni per vivere e quelle per credere, una divergenza che ha avallato l’idea che la frequentazione della vita in parrocchia e all’oratorio e pure la scuola di religione fosse un semplice passo obbligato per l’ingresso nella società degli adulti e tra gli adulti della società.
Più semplicemente: se Dio non è importante per mio padre e per mia madre, non lo può essere per me. Se mio padre e mia madre non pregano, la fede non c’entra con la vita.

I genitori insomma hanno fatto passare l’idea che Dio è un problema dei preti, dei vescovi, della Chiesa. È ora di dirci tutta la verità: il dio degli adulti si chiama giovinezza! Ed è un dio che ai giovani non serve.

Questo spiega il paradosso delle indagini: giovani che si sentono estranei alla fede dopo anni di parrocchia e che oggi si sentono in ricerca ma non ritengono la Chiesa competente al riguardo.

Colpisce molto una recente osservazione di Papa Benedetto XVI ai giovani: egli ha raccomandato loro di «essere più profondamente radicati nella fede dei [loro] genitori» (pref. a Youcat).

Dunque: è finito il catecumenato familiare, cioè quella silenziosa ma efficace opera di testimonianza della famiglia, che la nostra azione pastorale normalmente presuppone. E per questo noi non siamo attrezzati per persone estranee alla fede, al massimo riusciamo a pensare al “credente non praticante”; che è un vero ossimoro.

In più dobbiamo ricordare che esiste una fetta non piccola di cultura contemporanea che non solo afferma che Dio non c’entra con la vita, ma che si ostina nel provare a dimostrare che Dio è contro la vita, è contro la felicità, è contro l’umanità.

Da qui un triangolo davvero terribile: i giovani a casa hanno imparato una vita e un mondo vita senza Dio, nella cultura diffusa ricevono l’idea che Dio è contro la vita e contro la felicità umana, quando infine vengono in Chiesa, da una parte trovano pochi adulti felici credenti e dall’altra, poiché per noi loro sono già del tutto credenti (non praticanti, ovviamente), li riempiamo di istruzioni morali, di precetti e di verità da sapere, che però essi non sanno come raccordare con la loro esistenza. E quindi se ne vanno.

Qui mi pare si trovi un dato che la bilancia segnala in modo netto: l’impostazione del nostro sistema pastorale “produce” sempre meno credenti e sempre più giovani estranei all’esperienza religiosa cattolica.

Questo pone sul tavolo una domanda molto urgente: quale pastorale deve essere messa all’opera per ventenni e trentenni con un alto tasso di estraneità alla fede cristiana? Ovvero: non possiamo più ritenere che la questione dei giovani – di questi giovani – sia tema di competenza esclusiva di un settore della pastorale, vuoi pure giovanile.

“I giovani amano Internet perché gli adulti nati prima del 1981 sono troppo lenti”

Decreta infatti l’imporsi di una prassi adulterata di adultità, connotata da una scarsa autorevolezza, da un continuo scimmiottamento dei più giovani nel modo di vestire e di parlare, da un’impossibile lotta contro l’avanzata del tempo con interventi di chirurgia estetica, trucchi, mistificazioni di ogni tipo, da un diffuso cinico narcisismo, da un attaccamento patologico a poltrone e a posti di prestigio quali fonti di energia alternativa a quella naturale che se ne va via, da un più generale a-moralismo, forma degenerativa del più noto principio del “politicamente corretto”.
Questa nuova condizione degli adulti attiva poi in loro un rischiosissimo dispositivo di invidia: invidiano terribilmente i giovani, per l’obiettivo vantaggio che hanno nella corsa verso il paradiso della giovinezza. Ed è questa invidia dell’universo giovanile che ne decreta infine il suo destino di invisibilità e di conseguente marginalizzazione: nessuno può sopportare la vista di colui che è oggetto della sua invidia, non vuole (non riesce a) vederlo o vuole vederlo al limite come tolto dalla sua vista.
È ovvio a questo punto il motivo per il quale normalmente i giovani disertino i luoghi “adulti”: che cosa avrebbero da apprendere da loro, nella misura in cui gli adulti fanno di tutto per annullare quella differenza che l’età, l’esperienza, la consapevolezza della fine dovrebbe alimentare e che costituisce la condizione di ogni autentico dialogo educativo? Se negli adulti non vi è altro da cogliere che una corsa continua verso un’impossibile giovinezza, essi non hanno nulla di interessante da offrire al mondo dei giovani, sperimentando essi stessi sul vivo cosa sia la giovinezza.
Perché i giovani amano la notte? Perché finalmente gli adulti sono fuori dalla scena. Perché amano internet? Perché è troppo veloce per chi è nato prima del 1981.
E risulta ovvio a questo punto anche il senso della trasgressione del mondo giovanile: se il modo e lo spazio classico della giovinezza è invaso dai loro genitori, non sono costretti a inventarsi un modo altro di essere giovane, trasgressivo? Come potrebbero difendere il loro non essere giovani rispetto a quello dei loro genitori, se non attraverso una forma trasgressiva di giovinezza?
È proprio la perdita di amore per l’età adulta che blocca ogni forma di dialogo educativo. Quale punto d’arrivo dovrebbe avere un giovane, nel suo cammino, se gli adulti rifiutano di essere tale punto d’arrivo?
Dobbiamo pure sottolineare il fenomeno molto diffuso della tristezza degli adulti, una tristezza che si manifesta come costante nervosismo, fretta, sfiducia negli altri, aggressività. Questa tristezza è molto pericolosa: un giovane guarda i propri adulti e dice: crescere significa dunque diventare così!
Il incessante dolore del non essere più giovani da parte degli adulti è l’emergenza educativa. Perché un giovane dovrebbe desiderare di entrare in questo club di sfigati che siamo noi adulti?

In ogni caso questo vulnus dell’immaginario collettivo circa il valore e la prassi dell’adultità chiama in causa la comunità dei credenti: qui deve giocare la sua fedeltà a quell’invito del Signore Gesù a cercare innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia. Siamo davvero di fronte a una situazione di impasse della nostra società, che richiede un atteggiamento di autentica profezia, sia in relazione alle strategie e priorità della gestione delle risorse pubbliche sia in relazione al modo con cui gli adulti interpretano maldestramente e irresponsabilmente il loro ruolo all’interno della società. I giovani, d’altro canto, sono numericamente assai pochi e quindi bisognano di alleati per riuscire a cambiare il trend recente che appunto li destina ad assaporare continuamente il gusto amaro di una società che ne decreta a sufficienza l’inessenzialità. L’invisibilità.

“I giovani hanno desiderio del sacro ma non trovano la Chiesa Cattolica competente per rispondere a tale bisogno”
Increduli
Il termine incredulità – che indica: decisione di non credere, diffidenza, semplice mancanza della fede, resistenza ad accogliere qualcosa come vero –  è, a mio avviso, in grado di restituirci il meno approssimativamente possibile ciò che numerose rilevazioni sociologiche ci consegnano in riferimento al rapporto dei giovani con la fede cristiana. Risalgono all’ultimo anno tre istruttive indagini sulla fede/non fede dei giovani.
L’indagine che ha suscitato molto scalpore è quella realizzata a marzo 2010, su commissione del Servizio per il progetto culturale della Diocesi di Novara, dall’Istituto Iard, con la quale si è provato ad aggiornare un’altra indagine realizzata dal medesimo istituto di ricerca nel 2004 e pubblicata nel 2006. Ciò ha permesso una comparazione tra i dati. La pubblicazione completa della ricerca del marzo 2010 è stata annunciata per il mese di settembre 2011, ma i dati più rilevanti sono stati pubblicamente diffusi e rilanciati dalle maggiori testate nazionali. Essi sono:
- i giovani italiani che si dichiarano cattolici sono oggi poco più della metà della popolazione totale (circa 8.000.000), con un decremento netto rispetto al 2004 del 14% (in termini assoluti circa 1.100.000);
- rimane uno zoccolo duro di cattolici praticanti molto convinti (intorno al 12% della popolazione giovanile totale),
- aumenta di poco, tre punti percentuali, il numero di giovani che si dichiara non credente/agnostico;
- oltre l’80% dei giovani evidenza un’attenzione verso il sacro;
- diminuisce in generale la partecipazione alla S. Messa, anche a quella di Natale e di Pasqua;
- diminuisce la fiducia nella Chiesa come istituzione e nei suoi rappresentanti ufficiali (buona eccezione: i frati francescani);
- aumenta la partecipazione a eventi più occasionali: pellegrinaggi, feste patronali, convegni culturali;
- si riscontra una certa “confusione sotto il cielo” per quel che riguarda ciò che teologicamente si definisce la fides quae.
Una seconda molto interessante analisi del rapporto giovani e fede è stata condotta dall’Osservatorio Socio-religioso Triveneto su un campione di 72 giovani della Diocesi di Vicenza. È un’indagine a carattere qualitativo e quindi con risposte aperte. Il tutto è ora finito in un possente volume dal titolo C’è campo? Giovani, spiritualità e religione. Il dato più interessante della ricerca è l’inedito allineamento dei comportamenti delle giovani donne, in termini di disaffezione alla pratica della fede, a quelli dei coetanei maschi
L’ultima indagine, che è bene aver presente, ha un respiro più ampio: non è rivolta solo al mondo dei giovani ma al più generale contesto della popolazione italiana. Commissionata dalla rivista il Regno al prof. Paolo Segatti dell’Università degli Studi di Milano, offre tre evidenze in merito alla fascia giovanile, che merita citare in modo diretto:
- «La tendenza comune a ogni aspetto dell’identità religiosa è che i giovani, in particolare quelli nati dopo il 1981, sono tra gli italiani quelli più estranei a un’esperienza religiosa. Vanno decisamente meno in Chiesa, credono di meno in Dio, pregano di meno, hanno meno fiducia nella Chiesa, si definiscono meno come cattolici e ritengono che essere italiani non equivalga a essere cattolici».
- «Lo scarto tra la generazione del 1981 [...] e la precedente nella propria adesione alla religione, segnatamente alla confessione cattolica, è così forte da non consentire di rubricarlo in una sorta di dimensione piana, in un processo dolce e lineare di secolarizzazione».
- «Accanto allo scarto generazionale va poi richiamata la riduzione sostanziale della differenza di genere. Non vi sono differenze sostanziali tra gli uomini e le donne».
L’uso della parola “estraneità” per indicare l’atteggiamento complessivo dei giovani rispetto all’esperienza di fede cristiana – non al sacro, non al trascendente – ovviamente colpisce molto. Cioè: non accetterebbero di essere definiti atei solo perchè non cattolici. Il punto che ci interroga è il fatto che pur sentendo il bisogno di un sacro – ma fino a quando? – non ritengono la Chiesa cattolica competente al riguardo.

“Ad attirare non e’ la bravura, ma la bellezza di essere credenti felici”

Il punto in cui siamo sfidati, a livello teorico, è quello di rompere l’incantesimo contemporaneo per il quale Dio non c’entra con la felicità umana e per fare questo abbiamo bisogno di adulti credenti felici. E poi abbiamo bisogno di “smontare” e rimontare tutti quei meccanismi ecclesiali che avallano l’idea che Dio sia un problema della Chiesa e dei preti. Penso al rapporto catechesi e sacramenti, al rapporto liturgia e preghiera e infine al rapporto tra amministrazione e accompagnamento.
Per questo vi invito a riflettere: siamo sicuri che l’unico modo per organizzare il vissuto feriale delle nostre comunità sia unicamente quello della celebrazione della messa e la preghiera del rosario? Siamo sicuri che l’unico modo per fare memoria del giorno festiva/festosa del Signore sia quello di aumentare il numero di celebrazioni della messa? Siamo sicuri che non lasciando alcun prete libero, la domenica, per ascoltare, accompagnare nella riscoperta della fede cristiana, vuoi pure per confessare questi giovani, sia il modo migliore per impiegare le nostre energie? Ci sentiamo davvero apposto per quel che riguarda il nostro impegno e la nostra presenza ecclesiale nella scuola e nell’università? Non è troppo poco affidarsi quasi esclusivamente all’efficacia delle GMG, esperienze in sé positive?

Il grande compito che ci attente è già detto: la riabilitazione degli adulti a quella forma originale e non surrogabile di testimonianza felice della convenienza della fede per le nuove generazioni. Abbiamo bisogno di adulti felici di credere.

Da qui la grande sfida del futuro del cristianesimo: ritornare all’annuncio di Gesù, misura felice dell’umano. Gesù è un uomo infinitamente felice d’essere al mondo: dobbiamo recuperare e rilanciare la forza magnetica della sua vita e della sua parola. Dobbiamo annunciare di nuovo il Dio di Gesù che è un Dio della festa, un Dio che trova la Sua gloria, come dice Sant’Ireneo, nell’uomo che vive in pienezza. E allora: quanta Bibbia c’è nella vita delle nostre parrocchie? Che tipo di liturgia viviamo? Non testimonia la terribile espressione – una specie di bestemmia – “animare la liturgia” che abbiamo piuttosto “ammazzato” la liturgia? È un’esperienza di bellezza, la nostra liturgia, secondo il titolo di un famosissimo testo di P. Florenskij, Bellezza e liturgia?

Sì, di bellezza dobbiamo tornare a parlare, di bellezza dobbiamo tornare a commerciare. È la bellezza che attira, come avevano scoperto i teologi del Medioevo: kalos kalei (il bello chiama, pro-voca). Come Chiesa – dice spesso p. Marco Rupnik – noi siamo anche molto bravi, ma la bravura non attira nessuno. Ciò che attira è la bellezza.

Per fare questo bisogna mettersi in ricerca, bisogna mettersi in dieta: facciamo troppe cose, come Chiesa, ma sono belle?  E le cose belle che dovremmo fare sono belle davvero? I canti, le preghiere, gli incontri?

Dunque, dobbiamo metterci in cammino: non bisogna solo attendere i giovani. Loro stessi non sono fermi. Moltissimi di loro sono appunto inquieti.

“La musica e’ la protesta contro le passioni tristi degli adulti”

Terzo aggettivo della nostra bilancia. Inquieti.
L’origine di questa inquietudine è data dal fatto prima citato, per il quale i giovani debbono inventarsi una nuova giovinezza: se i modi classici della giovinezza (vestiti, stile di vita, ecc…) sono presidiati da noi adulti, loro debbono trasgredire per forza questi modi, per dire la loro giovinezza. E se vi è una trasgressione pure inquietante (piercing, tatuaggi, esposizione di varie parti del corpo, tagli da funerale di capelli, abbondante uso del cerone, ecc…), vi è pure una trasgressione che è ricerca. Ricerca non semplicemente di un’altra giovinezza, ma di una nuova forma di umano rispetto a quella che ha portato i loro genitori a diventare adulti tristi e adulti “bunga bunga”.
Nei giovani d’oggi emerge, infatti, una piccola ma decisa contestazione del modo di vivere che si è imposto nella nostra società. Proviamo a mettere in luce tale contestazione attraverso la fissazione di quelle caratteristiche che definiscono il vivere dei nostri giovani.
La prima risorsa che viene messa in campo dai giovani contro una società per la quale essi sono invisibili è il valore dell’amicizia, un valore che supera di gran lunga anche il desiderio di carriera e dei soldi. Emerge così un dinamismo di comunicazione tra pari che non si assoggetta alla legge unica del mercato, dove si scambiano cose, ma piuttosto ci si pone nell’atteggiamento di uno scambio di ciò che si è, di ciò che si prova, di ciò che più bolle nel cuore – prima e più di ciò che si possiede.
Soprattutto la rete offre molteplici possibilità al riguardo: da Facebook alla costruzione di un sito o di un blog, dalla chat all’invio costante di messaggi. È il desiderio di creare una rete, di recuperare un senso di attenzione a dimensione profonde alle quali la società degli adulti non presta la dovuta attenzione.
Particolarmente significativo è poi un altro elemento che caratterizza la vita dei giovani di oggi: l’amore per la musica. Altra dimensione di libertà: la musica è il primo contatto che un essere umano ha con il mondo, dalla voce rassicurante dei genitori alla presenza di altri rumori, che dischiudono nuovi paesaggi. La musica rappresenta una grande risorsa: sia quando essa è fatta dai giovani sia quando viene usufruita da essi. È spazio di creatività, di liberazione, contro le ossessioni performanti di adulti che sanno valutare il loro operato solo in termini di rendita e di crescita di capitale. È la protesta contro le passioni tristi dei loro adulti. È la preghiera anonima al Dio della festa.
Pure significativa è la maggiore sensibilità per la natura propria dei giovani, la cui cifra è a mio avviso il loro grande amore per la fotografia. Dopo anni di cementificazione selvaggia, di sfruttamento privo di qualsiasi razionalità ambientale, che hanno al cuore un concetto di natura quale pura risorsa da sfruttare, avanza invece nel mondo giovanile un inedito spirito ecologico. Da questo punto di vista ha colto davvero nel segno l’attore Antonio Albanese con il suo irriverente e irrispettoso personaggio di Cetto La Qualunque, il quale dice proprio di una generazione di adulti che valuta tutto in termini di investimenti e di capitali da aumentare e che non è più capace di avvertire il fascino di questo pianeta che è vivo e vivente e che chiede pure attenzione per i suoi dinamismi. Forse proprio la giusta distanza che l’arte della fotografia richiede e insegna è metafora di un più generale e complessivo atteggiamento di stupore che i giovani suggeriscono al popolo degli adulti: stupore per un pianeta, il nostro, che è l’unico tra quelli sinora conosciuti a generare e conservare forme superiori di vita – una condizione di quasi mistero, di cui la scienza va in cerca delle spiegazioni e delle cause, ma la cui custodia chiama pure in causa la volontà e l’intelligenza umana.

“La nostra Chiesa possa ritornare ad essere una Chiesa della festa”

Pure significativa è la maggiore sensibilità per la natura propria dei giovani, la cui cifra è a mio avviso il loro grande amore per la fotografia. Dopo anni di cementificazione selvaggia, di sfruttamento privo di qualsiasi razionalità ambientale, che hanno al cuore un concetto di natura quale pura risorsa da sfruttare, avanza invece nel mondo giovanile un inedito spirito ecologico. Da questo punto di vista ha colto davvero nel segno l’attore Antonio Albanese con il suo irriverente e irrispettoso personaggio di Cetto La Qualunque, il quale dice proprio di una generazione di adulti che valuta tutto in termini di investimenti e di capitali da aumentare e che non è più capace di avvertire il fascino di questo pianeta che è vivo e vivente e che chiede pure attenzione per i suoi dinamismi. Forse proprio la giusta distanza che l’arte della fotografia richiede e insegna è metafora di un più generale e complessivo atteggiamento di stupore che i giovani suggeriscono al popolo degli adulti: stupore per un pianeta, il nostro, che è l’unico tra quelli sinora conosciuti a generare e conservare forme superiori di vita – una condizione di quasi mistero, di cui la scienza va in cerca delle spiegazioni e delle cause, ma la cui custodia chiama pure in causa la volontà e l’intelligenza umana.
Interessante è poi l’attenzione prestata ad alcuni personaggi impegnati a tentare una trasformazione delle leggi inesorabili della società: si pensi all’effetto Obama, oppure all’affetto sincero per il Papa, per Madre Teresa, per i monaci tibetani, per Saviano, per Emergency… Si pensi pure alla stima per i frati francescani e alla loro proposta eretica di conciliare povertà e felicità; si pensi ancora all’amore per alcune esperienze spirituali presenti anche nel nostro Paese (Bose, Camaldoli, Romena, ecc.). Nessuna di queste realtà è in grado da sola di produrre nuovi scenari di umanità a larga scala, ma basta la prova e l’impegno in tale direzione ad attrarre la simpatia convinta dei giovani.
Quasi incredibile, per una società come la nostra che ha sdoganato ogni forma di egoismo, è la presa che il volontariato ha ancora sul cuore dei giovani.
Non possiamo non accennare poi alla dimensione dell’immaginario che trova alimento nella fruizione della letteratura e del cinema contemporanei (Harry Potter, Twlight, Matrix), ove l’indice di gradimento pesa a favore di un possibile alleggerimento della gravità del reale e del male che segna la vita di ognuno. Poi vi è tutta una letteratura fatta da giovani (Silvia Avallone, Viola di Grado, Barbara di Gregorio, Alessandro D’Avenia, ecc.) nella quale emerge, forte, l’invocazione di una nuova prassi di adultità.
Al proposito vorrei citare una pagina dell’ultimo libro della saga di Harry Potter, in particolare l’ultima istruzione che egli riceve: «Tu sei il vero padrone della morte perché il vero padrone della morte non cerca di sfuggirle. Accetta di dover morire e comprendi vi sono cose assai peggiori nel mondo dei vivi che morire».

Tra le assai cose peggiori che morire vi è sicuramente quella lotta contro la vita per la paura della vecchiaia, della malattia e della morte, che ha accecato molti adulti, una lotta contro la morte che alla fine blocca la vita stessa. La propria e quella altrui.
Tra le assai cose peggiori che morire vi è una vita di tristezza.
Che la nostra posso ritornare a essere una Chiesa della festa.
Lo dobbiamo a noi, lo dobbiamo ai giovani!

 


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